A proposito dei pochi Rumeni dell'Istria, ci scrive un giovane filologo
istriano:
«Sia lecito spezzare una lancia in loro favore, sebbene
ci accorgiamo che a poco o a nulla approderanno le nostre
parole.Pochi altri popoli, ove si eccettuino i loro
confratelli del basso Danubio, diedero, a nostro avviso almeno,
come i Rumeni dell'Istria, prova più luminosa della tenacità con
cui si conserva la lingua succhiata col latte materno. Questo
pugno di gente seppe, per anni ed anni tener fronte alla marea
irrompente della razza slava, la quale, come già si assimilò il
villaggio di Mune, un dì tutto rumeno, finirà coll'ingoiarsi
anche quest'ultimo rudere di gente valacca sul Carso. Certo, se,
come osserva il Combi (Porta Orientale, a, III, 108), i
loro sacerdoti avesserò posto cura di tenervi deste le memorie,
ci sarebbero chiari non pochi avvenimenti di molta importanza
che ci appariscono invece appena in ombra. Ma i sacerdoti rumeni
(che pur ve n'ha di quelli a cui la lingua di questi pastori e
carbonai è famigliare) anziché venir mandati in quelle ville, in
cui potrebbero esercitare un'influenza benefica, vengono, per
così dire» relegati in terre, nelle quali gli è molto se
giungono ad adempiere la loro missione di preti; nei villaggi
del Carso e della Valdarsa, dove pure si parla il rumeno,
s'inviano, in quella vece, curati che o
di rumeno non conoscono verbo, oppure detestano questa
lingua. Eppure in certi luoghi, come a Zejane, il prete rumeno è
invocato qual messia.
Debito di giustizia e null'altro motivo ci induce a narrare come nelle poche
ore che avemmo, anni or sono, occasione di soffermarci nel detto villaggio di
Zejane, gli abitanti di questa villa, uditoci balbettare la loro lingua, ci
prendessero a dirittura per uno di loro, e ci fossero larghi della più sincera e
cordiale ospitalità. Vi trovammo le donne, spaventevolmente magre, oltremodo
fiere della loro origine e del loro idioma domestico.
Secondo la tradizione che là raccogliemmo, tanto questi rumeni, quanto quelli
della Valdarsa sarebbero i discendenti di tre pastori, venuti dal basso Danubio.
Questi tre, passando in cerca di pascoli d'alpe in alpe, sarebbero giunti prima
nell'altipiano di Mune e di Zejane, e poscia si sarebbero spinti fino nella
Valdarsa. Trovati quei luoghi adatti al loro scopo, due di essi avrebbero fatto
ritorno alle case loro, per prender moglie; e al loro ritorno avrebbe fatto lo
stesso il terzo (cfr. però quello che ne dice il Miklosich nel suo lavoro
intitolato; Ueber die Wanderungen der Rumunen in
den Daìmatinischen Alpen und
den Karpaten,
nelle Memorie dell'Accademia delle scienze di Vienna, classe fil.-stor, vol.
XXX, p. 6; e l'articolo in proposito del prof.
[note]
A.
Ive nella Romania, IX, 320-328). Narrataci questa loro odissea, ci
menarono a vedere la loro chiesa, piccola ma pur pulita e bene conservata:
additatoci l'altare maggiore, privo di qualsiasi pregio artistico, ci esaltarono
con compiacenza infantile questo loro palladio; ripetendo non senza grave
rammarico queste parole, che vogliamo qui riprodurre testualmente anche a saggio
di quella lingua, del resto ben nota; Busériika rem, ma prévtu vi drem
(abbiamo la chiesa, ma non abbiamo il prete). Nostra, bùra
limba
(la nostra è buona lingua). E finivano tutti i loro discorsi cosi: Si
n'drem prévtu, tots perdùtsi ómiri
smo
(se non abbiamo il prete, siamo tutti uomini perduti). Che ciò non avvenga,
vegga e provvegga chi deve».
Editor's note:
Compare this account with the 2010 version presented by Pepo G. in Mihai Burlacu's
paper
Istro-Romanians: The Legacy of a Culture.