Dei Rimgliani o Vlahi d'Istria
Nella Valdarsa*, la quale dalle pendici del Monte Maggiore e dalle
alture di Bogliun e di Pedena s'estende a Cosliaco e Sumberg, abita un
popolo che sè stesso altravolta Rimgliani (Romani) chiamava, e
che oggi adottando il nome che gli estranei gli danno, si dice vlahi.
La lingua che parlava e che ancora parla famigliarmente, non é la slava,
non l'italiana, ma un latino rustico, comunque frammisto a voci slave.
Questa lingua che diremmo romanica, non nella Val d'Arsa soltanto si
parlava, ma nel Carso di Pinguente per fede del Flego riportato dal
Tommasini, nei dintorni di Trieste in Opchiena, Trebiciano, Padriciano,
nel distretto di Castelnuovo per fede del'Ireneo della Croce (pag. 335)
anche da quelli che per sopranome vennero detti Cicci a motivo dell'uso
sonoro e frequente della lettera c e nel loro linguaggio e
che essi dicevansi Rumeri (Rumeni). La lingua slava ha
sbandito, progredendo, interamente la romanica del distretto di Trieste
e quello di Castelnuovo, meno le ville di Mune e di Sejane, a fra non
molto la sbandirà interamente anche dalla Valdarsa*, per cause che
inutile sarebbe d'accenuare. Nè forse a queste sole terre limitavasi la
lingua romanica, ma se d'altri comuni fu propria, come il tipo di razza
ed alcune custumanze sembrano attestare, manca ogni notizia storica,
perché gli scrittori slavi che appendice del Carnio considerano la
provincia, tacquero della lingua romanica o forse a loro conoscenza non
pervenne o non ne curarono.
Questa lingua é tuttogiorno parlata famigliarment da 6000 persone,
famigliarmente, quasi lingua di confidenza, che pronunciare non saprebbe
nelle chiese, negli usi civili della vita.
Essi non sanno più le orazioni in romanico, sebbene la chiesa latina
l'usi nobilitato come lingua di liturgia; essi non conoscono in romanico
più che i primi dieci numeri, ed anche di questi, due sono espressi con
voci slave; pure questa lingua tuttor viva, é quella che parlava il
popolo che 2000 anni or sono conquistava l'Istria, quella che per 2000
anni ha durato.
Comunque povera si conservi in questi ultimi giorni di sua esistenza,
comunque il popolo a tale sia declinato da assumere esso medesimo quel
nome che ingiurioso pel passato considerava, inferiore in ciò alli
stessi Cicci lor confratelli, che lo straniero nome insultante ricusano,
il serbare memoria é cosa di decoro non solo ma di giovamento nelle
ricerche storiche.
Romanica ella si é all'intutto, e non diversa da quella che in altri
paesi conservasi viva nei discendenti delle colonie che i romani
trasportarono per esempio nella Dacia; indentiche con quelle della Dacia
ne sono le costruzioni, le flessioni, identiche le voci, di poco variate
le desinenze. Sennonché nell'Istria grande propensione si ha di cangiare
nella r specialmente le lettere che n od l sono; anche in Trieste i nomi di Silvola, Calvola,
Scolcula, si cangiarono in Servola, Ciarbola, Scorcola. Terminano spesso
in u quei mascolini che in latino avrebbero desinanza in us, i femminili in a, in ece quelli
che l'avrebbero in x; hanno gli articoli ru (lu),
ra (la), ur (un), formano il genitivo colla
de; hanno il pronomi personali io, tu,
je,
noi, voi, jegl (illi), i
pronomi dimostrativi cesta, cella, ceschi,
cegli, çasta,
çaste,
ça,
çelle, i verbi in à (are), in é
(ere), lungo e breve in i (ire), l'ausiliare avè
(avere), fì
(essere), il presente l'imperfetto; compongono il futuro col
verbo votè volere, hanno l'ottativo, hanno pure i verbi
irregolari, hanno insomma la grammatica daco-romana, ed anche le voci,
comunque alcune slave abbiamo adottato, che usano frammettere.
Declinano p. e. e a questo modo
çace (tata latino)
de çace,
luçace -
çaci, de
çaci,
lu çaci, di lu
çaci - carle (il quale) de cire,
lu cui, lu carle (col quale), di lu carle (dal quale), je (egli), de je, a lui,
gla, cu je - (suo) a lui, de a
lui, a lui, lu a lui, de a lui.
Coniugano p. e. jo am (io ho), tu ari, je are, noi aremo, voi arez,
jegl aru - jam avut (ho avuto), jo voi avä
(avrò), je vas avä (avrei), jo vas fost avä (avrei avuto),
are (abbi),
avè (avere); io lucru (lavoro), tu lucri,
je lucra, noi lucramo, voi lucraz,
jegl lucra, jam lucrat, jo voi lucrà,
jo res fost lucrà.
Ecco due narrazioncelle di questi romanici nealla loro lingua insieme
alla versione latina volgare alla quale facilmente può ridursi ed alla
versione italiana.
Rumero |
Latino |
Italiano |
Doi omir (n) ämnata en ra (la) se calle; ur
(un) de jegl afflata o secura, e cgläma: Oh
veri ça am jo afflat. N' am afllat moresti
sice, sice cella ato; ma aremo afflat. Salec pocle verita cegli cargli
secura pglierdut, e resulta secura en mera lu cela car le vo afflat, poç
nita maltrateil sa tata. O morz-esmo cglamata jeigl tunce. Compagna a lui.
Nu smo, moresti sice, ma jessam. Saz c'ai tu secura afflat cglämat-ai,
jon vo e no noi amo vo afflat. |
Duo homines ambulant in illa sua calle; unus de
illis.... unam securim, et clamat: Oh vide quid ego habeo... Non habeo...
dicere dixit illi alter; magis habemus... pauculum post venirunt illi qui
securim perdiderant, et visa securi in manu illius qui habeta... O morti
sumus clamavit ille tune. Compagnus illi: Non sumus,... dicere, magis
ego sum... quando habbes tu securim... clamasti ego habeo eam, non nos
habbemus eam... |
Due passeggieri se ne andavano all alor via:
l'un d'essi adocchia una scure e grida: Oh vedi qel che ho trovato! - non
ho trovato, dovresti dire, rispose l'altro; ma "abbiamo trovato".
Sopragiungono poco dopo coloro che avevano perduta la scure, e adocchiatala
in mano al viandante, cominciarono a maltrattarlo per ladro. - Oh siamo
morti! Gridò quegli allora. - E il compagno a lui. Non "siamo" devi dire, ma
"sono". Giacchè poco fa quando tu avevi ritrovata la scure, tu gridavi, l'ho,
non l'abbiamo trovata.
|
Jarna fosta e cruto race. Frùmiga car avut
neberito en vera çuda hrana, stata smirom en rä
sä
cassa. Cercecu sebodit su pemint, patita de home e de race. Rogata
donche fruniga necaegl duje salec muncà xivi. E fruniga sice, juva ai tu fost en
jirima (inima) de vera. Suç che n'ai tu tunce a te xivlenge prevavit. - En vera
sissa cercecu cantatam mi divertitam cargli lrecut. E fruniga ersuch: S'ai tu en
vera canta, avmoci che jarna, e tu xoca |
Vernus fuerat et cruda glacies. Formica quae
habuit... in vere multa grana, stabat... in illa sua casa. Cicada sedebat
subtus pavimentum, patita de fame et glacie. Rogavit dehine formicam ut ei
det solum manducare ut vivat. Et formica dixit, ub fuisti tu in anima de
vere. Sed ad quid non habes tu tune praeparata victuaria. - In vere dixit
cicada cantabam et... illos qui... Et formica...Si habes tu in vere
cantatum, mox quod est vernus, et tu joca. |
Era d'inverno, e gran freddo. La formica che
aveva già raccolte molte provigioni nella state, se ne stava tranquilla in
sua casa. La cicala, ficcatasi sotterra, languiva di fame, di freddo. Pregò
dunque la formica che le desse un po' da nutrirsi, tanto da vivere. E la
formica a lei: Dov'eri tu nel cuor della state? Perchè dunque allora non ti
prepararsti al tuo vitto? - Nella sate, rispose la cicala, cantavo e
divertivo i passeggeri. E la formica sorridendo: Se tu di state cantavi, ora
che è il verno, e tu balla. |
Quelli che pensano essere nati i dialetti italiani e la
stessa lingua colta italiana dal miscuglio del latino colle lingue di
popoli settentrionali, in questi Rimliani d'Istria hanno esperimento come
fallace sia l'opinione, e come piuttosto dalle lingue vive volgari siasi
in antico composta la lingua nobile latina, quale in tempi moderni la
lingua mobile italiana, lingue delle quali nessuna parlossi mai dal volgo,
bensì dai dotti soltanto fu scritta, e nelle pubbliche solenni occasioni
adoperata. Imperocchè questa tribù di Rimliani in remoto angolo confinata,
fuori di ogni consorzio e di ogni condizione meno che rozza in mezzo a
popolo che altra lingua non italica parla, ha potuto nella lingua sua
confidenziale conservare e quelle voci che sono della lingua nobile latina
e quei modi che adottaronsi poi nella lingua nobile italiana.
Nè credasi già che questa schiatta di gente da altre regioni in tempi
a noi vicini nell'Istria passasse, troppi argomenti indubbi avendosi in
contrario; l'immigrazione rimonta a tempi più lontani, e la colonia dei
Rimliani d'Istria ha la stessa origine di quelle che vediamo conservare
la stessa lingua nella Dacia, nell'Epiro, nelle isole dalmate, e forse
in più altri paesi.
Questi Rimliani d'Istria son per cangiare la lingua, come altri lor
fratelli nella provincia hanno fatto: questi Rimliani non l'hanno
alterata siccome altri popoli fecero adottando i modi della lingua
moderna; il raccogliere i rimasugli dell'antico volgare romanico non
sarebbe opera oziosa nè perduta, ed è anzi meraviglia come fatto non
siasi studio di una lingua la quale è assai più preziosa di codici
scritti, perchè non adultarata. Forse altravolta si ritornerà su questo
argomento, e darassi un saggio migliore della grammatica, ed una
raccolta delle voci più in uso.
Antonio Covaz
Pisino, gennaro 1846
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*Nel 1846 il nome Valdarsa riferisce alla regione della valle
d'Arsa, non solamente il paese di Susnieviza (ora Sušnjevica) cambiato a
Valdarsa sotto il regno d'Italia dopo il 1918. Vedete Dario Alberi,
ISTRIA - storia, arte, cultura, Edizione LINT (Trieste, 1997).
Tratto da:
- L'Istrorumeno - La lingua, la cultura, la storia - Parliamo per
salvarlo, Associazione di Amicizia Italo-Romena Decebal, Trieste /
Carta Europea delle Lingue Regionali o Minoritarie, Strasburgo 5
novembre 1992. p. 27-28 - copia dell'articolo originale di
Antonio
Covaz, "Dei Rimgliani o Vlahi d'Istria", L'Istria, I. Anno.,
Sabato 10 Gennaro 1846 - Trieste, I. Papsch & Comp. Tip. del
Lloyd Austriaco - redattore Dr.
Kandler.
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