VIAGGIO IN FERROVIA ATTRAVERSO L' ISTRIA

Nel cuore del desolato e aspro altipiano dei Cici

Pietro Franolich

VI .

[Tratto da: L'Arena di Pola, 19 gennaio 1955, p. 3 - http://arenadipola.com/articoli/53487.]

Ad ogni viaggiatore che abbia fatto anche una se la volta il tratto in ferrovia da Pola a Trieste, il tetro aspetto del Carso sarà certo noto. Questo luogo sterlle e sassoso (la piccola stazione di Sasseto di cui Cicerone scrisse «Saxetum lacuna saxosum» ne è la espressione) devastata nelle sue foreste che Venezia adoperò per le palafitte dei suoi Palazzi e per la costruzione delle sue galee, è una regione deserta e desolata, dove, ad eccezione delle doline, che hanno un po' di erba e dei cespugli, non si scorge per la distesa di parecchie miglia quadrate traccia alcuna di vegetazione. Nel mezzo di questa inospitale regione si trova il bell'edificio della stazione di Acquaviva-Valmorosa. Il piccolo villaggio, abitato da poveri Cici in vicinanza della stazione, consta di poche capanne di pietra, che nascondono la povertà e la miseria di quella gente. Il ricavato di alcune piantagioni sulle doline, con gran fatica coltivate e protette dalla violenta bora da caratteristici muretti di pietra a secco, oasi sparse in tanto de serto di squallore, bastano appena a quei poveri abitanti per campare. In mezzo a questo deserto, senza acqua, zampilla da una fontana della piccola stazione una fresca e chiara acqua, con un forte e perma nenie getto, che alla breve sosta del treno le donne del luogo vendevano, chiedendo per un bicchiere un soldo di allora, pari a due nostri centesimi. Se vogliamo era fresca quell'acqua, ma anche... salata! Quell'acqua proviene da una sorgente scoperta a sei chilometri dalla stazione, all'altezza di 340 metri nelle vicinanze del villaggio di Brest.

L'Altipiano dei Cici, si estende precisamente in questa desolata regione, che occupa come una stretta fascia l'ultimo pendio dei monti e la strada provinciale che conduce a Fiume ed è abitato dal popolo montanaro dei cici, del tutto differente dalle altre popolazioni vicine.

Donde provenga questa popolazione non si è mai potuto sapere. Alcuni studiosi sostengono che la stessa provenga dagli Scyti e che il suo attuale nome ed il suo dialetto illirico sia stato tolto da quello scyzio; altri vogliono invece che esso provenga dai Romani e questo lo spiegano coll'idioma romanico ossia valacca, che i cici di 280 anni fa ancora parlavano, ma che ancor oggi certamente si parla nel villaggio di Sejane, come pure in alcune località ai piedi del Monte Maggiore. Di questa lingua si occuparono i nostri migliori glottologi, tra i quali — oltre il grande Pietro Kandler e Pietro Stancovich — l'albonese Matteo Bartoli (1873-946), l'abate Moisé di Cherso (1820-1888), il rovignese Antonio Ive (1851-1937), e Pier Gabriele Goidanich, nato a Volosca nel 1868, professore della Università di Bologna. Chi però si occupò in particolare di questo studio è il mio non mai abbastanza caramente ricordato prof. Giuseppe Vidossi ex Direttore del Ginnasio di Capodistria.

L'origine romanica o valacca dei Cici si vuole attribuirla anche al fatto della loro loquacità ed al loro impudico comportamento, mentre lo slavo, comunemente è più cauto, più riservato e più costumato. Altri sostengono che sia un ramo croato-sloveno, che nel 7.o secolo sia emigrato dalla Boemia nella Dalmazia e da qui più tardi, colla concessione dell'imperatore Eraclio, sia venuto in quella regione istriana. Si vuole derivarlo dalla parola valacca «Ciccia» che significa «cugino», e col quale si usano rivolgersi la parola. Il Cicio è' persona di grande statura, ma non ha una robusta costituzione fisica e non è fino ad oggi uscito dal più basso grado di cultura. La donna cicia, quanto a costituzione fisica, è eguale all'uomo: soltanto il suo aspetto è meno simpatico. La fronte bassa e piatta, gli occhi molto incavati, le guancia larghe e scarne, il naso per la maggior parte largo e rovesciato all'insù ed il colore della faccia generalmente nero bruno, sono tutte queste le caratteristiche della donna cicia. Il cicio vive alla giornata, senza tradizioni e senza ricordi, brucia legna per fare il carbone, che a quei tempi portava a Trieste, fabbrica doghe per le botti, custodisce le sue pecore e coltiva il suo povero campo. Più triste era allora il destino della donna cicia; non raramente essa veniva messa al mondo da sua madre o nel viaggio che essa faceva a Trieste, oppure durante il lavoro nel bosco. Appena essa poteva, come gli animali da soma, periodicamente portare in città un fardello, quanto lo sonsentivano le sue forze, e con questo peso sulle spalle salire e scendere le ripidissime roccia, facendo nel contempo anche la calza. La donna cicia non pensa al passato, né si cura dell'avvenire; non è mai allegra, né ride, e apaticamente si sottrae al lavoro faticoso ed agli abituali incomodi.

Vicino ad Acquaviva-Valmorosa la ferrovia, sempre in continua ascesa raggiunge attraverso ur non meno potente taglio nella roccia e sopra un grande argine, un secondo pendio. Qui la ferrovia cammina in considerevole altezza dal fondo della valle nel quale, come su di una verde isola, in mezzo ad un mare deserto di pietre c'è, come detto poc'anzi, il piccolo villagio di Sasseto, abitato dai Cici; oltrepassatolo, per tutta Ia distanza che può abbracciare l'occhio non si vede altro che un terreno roccioso, rotondo ed ondulato seminato di innumerevoli rovine di pietre. E qui presso, la ferrovia raggiunge nelle trincee calcari, la massima quota. E non mancano gli scogli in mezza a questo turbine del mare sassoso; ripidi e molto acuminati si elevano sullo altipiano, formando spesso delle circumvallazioni. Soltanto qua e là si vedono nelle doline, come abbiamo detto anche prima, piccole colture, accerchiate da muretti secchi di pietra dalle guali spuntano delle piante rade e striminzite, l'unica risorsa di questo povero suolo.

Pietro Franolich


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Created: Saturday, May 14, 2022; Last updated:Saturday May 14, 2022
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